[a cura di G. Fofi, Einaudi, Torino 2017]
Subito dopo la guerra Elsa Morante fa delle esperienze che cambiano profondamente la sua esistenza: col marito si trasferisce in via dell’Oca; s’impelaga nell’irrequieta relazione con Visconti; pubblica Menzogna e sortilegio (1948) che vincerà il premio Viareggio e che qualche tempo dopo Lukacs definirà «il più grande romanzo italiano moderno» (1967); scrive per «Il Mondo» di Pannunzio; collabora con la RAI con una rubrica di critica cinematografica. Quest’ultimo è un incarico che dura per quasi due anni e in cui consegna 47 veline dedicate, via via che uscivano, ai films (sic) italiani e americani. L’ultima è quella in cui, insensibile alle pressioni della dirigenza, stronca il film di De Felice, Senza Bandiera. Lo speaker non legge la scheda e s’interrompe la cooperazione. Tanta coerenza onora Morante e serve da canone a chi pratica la critica.
Ora Einaudi pubblica un volume che mette insieme queste riflessioni e pone in appendice la lettera di dimissioni e altri scritti sul tema. S’intitola La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951 e porta l’introduzione di Goffredo Fofi, che informa bene sul rapporto tra Morante e il vivace milieu del cinema ed è un documento prezioso sull’amicizia tra i due. Manca invece un apparato che dia notizia della schedatura degli autografi (depositati alla Nazionale) – ripresa dall’ottimo studio di Marco Bardini (Elsa Morante e il cinema, 2014), ingenerosamente appena menzionato in nota. Si è inoltre trascurata una, pur breve, analisi storica e stilistica che mettesse in relazione questo “secondo mestiere” con le altre attività di pubblicista, e che confrontasse questa scrittura di servizio con quella creativa.
I giudizi che Morante esprime sono argomentati ma saldi e rigorosi: bocciati Welles, che è eccessivamente barocco, e la Madame Bovary di Minnelli; promossi Clouzot, Powell e Pressburger; bene Girotti, Chaplin ed Eduardo, male Totò; ok il western e le produzioni per i “ragazzini” ma niente gialli; ridicolizza le commedie sentimentali; è offesa da certa comicità spiccia; s’indigna dell’industria hollywoodiana.
Il libro è importante per motivi contestuali e testuali. In primo luogo perché dimostra come si sia irrobustito il prestigio di Morante all’interno del côté romano. È ormai pari a quegli altri letterati che, com’era allora consuetudine, avevano una pagina per commentare le novità in sala. Tra questi, ben spartiti tra rossi e democristiani, Brancati, Flaiano, Palazzeschi, Pratolini e Moravia, che scriveva di cinema già dal ’44. In secondo luogo perché in un paio di testi riesce ad appagare la sua ambizione d’essere “leggera”, parlando, ad esempio, di moda, o quand’afferma che una donna a un professore colto preferisca le «virtù» d’uno sportivo (p. 22). Infine e soprattutto perché questi saggi, insieme agli altri pochi raccolti in Pro o contro la bomba atomica e altri scritti (1987) indicano, senza mediazione, la poetica dell’autore, incentrata sul realismo. Morante «Ai films, come ai libri, come alla pittura, come a ogni altra espressione umana,[ … ] chied[e] la realtà, e cioè un impegno assoluto e disinteressato verso la vita» (p. 116). Presa per buona questa premessa, si comprendono le perplessità verso il neorealismo, di cui lamenta il materialismo in Ladri di biciclette e il sentimentalismo in Roma città aperta. Esempi d’un realismo giudizioso e poetico sono semmai Pasolini e La terra trema di Visconti (ma di rimando elogia anche l’amato Verga), perché guarda «alla realtà umana, e solo alla realtà, con l’animo libero e attento di chi la guardasse per la prima volta» (p. 120). Una sincerità che Morante riscontra con più facilità nel dialetto di Belli che non tra i poveri di De Sica.
La «realtà» è dunque il criterio per valutare un artefatto ma è pure il principio che applicò con intransigenza per le sue “menzogne”. È in tanta severità di metodo che coincidono il critico e lo scrittore.
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